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Altri martedì 27 gennaio 2015 ore 21:22

"Come può un uomo trattare il suo simile così?"

Mauro Betti è l'ultimo toscano vivente sopravvissuto ai campi di concentramento. La sua testimonianza ed il suo messaggio nel Giorno del Memoria



POMARANCE — "E' difficile raccontare queste cose perchè come si può pensare che un uomo possa trattare il suo simile in questo modo? Quello che vedete nei campi di sterminio ora non è nemmeno la centesima parte di quello che erano allora e se ci andate ricordatevi che non è una gita di piacere, ma un pellegrinaggio dove andate ad onorare migliaia di persone trucidate e uccise, morte per la fame, per le malattie, per le botte, per cose possibili e impossibili". Mauro Betti questa mattina, 27 gennaio, al teatro dei Coraggiosi a Pomarance, ha parlato per oltre un'ora, in piedi, senza mai perdere il filo nella lucidità del suo tragico racconto. A quasi 93 anni è l'ultimo toscano sopravvissuto ai campi di concentramento ed è impossibile rendere giustizia con un articolo alla sua testimonianza ed al suo messaggio, non solo per le sue parole, ma per la grande capacità comunicativa che possiede.
Ad ascoltare Betti, nato a Castagneto Carducci nel 1922 e adesso residente a Cecina, nel Giorno della Memoria, una platea attenta di un centinaio di persone tra cui i ragazzi delle scuole medie di Pomarance e Larderello e dell'Itis di Pomarance che lo hanno seguito con enorme interesse. Il silenzio interrotto solo da alcuni lunghi applausi.

IL MESSAGGIO. E' proprio ai giovani che Betti rivolge un forte messaggio al termine del suo intervento. "Quando sarete grandi diventerete dottori, ingegneri, avvocati, persone importanti di cultura, qualcuno di voi può anche intraprendere la carriera politica, fino a fare il sindaco, il ministro, il presidente del Consiglio. Quando qualcuno di voi avrà raggiunto questi vertici e vi troverete a risolvere problemi difficili, anche internazionali, non date fuoco alle polveri! Non usate il fucile, ma dialogate, dialogate sempre perchè attraverso il dialogo si risolvono tutti i problemi. Attraverso la guerra non si risolve niente. Non ci sono guerre belle e brutte, buono e non buone, sante e non sante. La guerra non ha aggettivi. E' sempre guerra, sempre brutalità, disagio, sofferenza, patimento e morte. Ripudiate sempre la guerra e vivete sempre in un mondo libero, un mondo di pace".

LA SCELTA. "Sono partito da Castagneto per la guerra nel 1940, senza mai avere una licenza e fino alla fine della guerra non ho più rivisto mia madre". Betti era un militare, un radio telegrafista della marina militare durante la seconda guerra mondiale. "Dopo l'8 settembre del 1943 io ero nell'isola di Rodi e fui fatto subito prigioniero dai tedeschi, prima mi portarono nel campo di concentramento a Rodi, poi ad Atene, poi in Croazia, ma sempre come militare". "In Croazia nel 1944, volevo raggiungere l'italia e così volevo unirmi ai partigiani croati; all'inizio fui accolto con diffidenza perchè ero un militare italiano, loro nemico, ma poi venne il comandante dei partigiani e si convinse, così andai con loro a fare il partigiano. In uno scontro contro i cosacchi, eravamo in 7, gli altri rimasero tutti uccisi; mi fecero prigioniero e mi portarono in galera a Zagabria. Finchè non venne un capitano della Repubblica Sociale Italiana fascista e mi propose: 'vuoi andare in italia?' Mi disse: 'firma qui e andrai a fare il radiotelegrafista nella marina della Repubblica di Salò'. Io risposi che la guerra l'avevo già fatta e l'avevo persa e chiesi quale sarebbe stata la mia sorte se non avessi accettato. Il comandante mi disse: 'vai in Germania a lavorare'. Riflettei e pensai: se vogliono che io lavori, mi daranno anche da mangiare e così scelsi questa sentenza. Ecco come sono finito nei campi di sterminio".

IL CAMPO. "Il mio primo campo fu Grosse-Rosen in Germania, poi Buchenwald in Polonia e il terzo e il più terribile fu Flossenburg in Germania, vicino a Norimberga. Io non sono stato ad Auschwitz perchè quello era prettamente per gli ebrei".
"Arrivato al campo di Grosse-Rosen ebbi anche un momento di gioia dall'esterno; mi dissi: ma guarda qua, questo è un residence, tutte le baracche ordinate messe in fila alla stessa distanza, una strada che tagliava in due il campo. Quando entrammo fummo consegnati dai capò, che erano tedeschi o polacchi per la mia esperienza e mantenevano l'ordine: dei maledetti criminali che uccidevano le persone a bastonate. Una volta entrati i capò ci presero subito a urli e bastonate. E pensai: altro che residence questo è l'inferno. Cosa ho fatto di male per finire così?"

Betti racconta come appena arrivati nel campo furono letteralmente spogliati di tutto, non solo dei vestiti, ma anche di orologi, catenine e quant'altro. "Ma soprattutto fummo spogliati anche del nostro nome e cognome. Fummo depilati in ogni parte del corpo, compresa la testa. Lasciavano solo una striscia di capelli larga tra dita dalla fronte alla nuca in modo che se uno scappava era facilmente riconoscibile. Mentre ci depilavano in maniera grossolana ci tagliavano in ogni parte del corpo, provocandoci delle terribili incisioni anche nelle parti più delicate. E questo era solo l'ingresso. Io non riuscivo a capire come uomini come noi potevano trattare altri uomini così".
"Poi mi portarono in una baracca dove dormivamo anche mille-mille e duecento persone dove era previsto che ce ne stessero cento. Dormivamo in lettini a 3 posti di legno, ma ci dormivamo in 15, l'uno sopra l'altro".
"Per vestirci avevamo un pantalone, una camicia e una giacca e degli zoccoli di legno, senza altro, né mutande, né calze, né scarpe. Eravamo pieni di pidocchi che si inserivano anche sotto la pelle con un prurito allucinante e portavano il tifo petecchiale, oltre alla tubercolosi e molte altre malattie che circolavano in un ambiente come quello".

"Al campo di Buchenwald lavoravo in una fabbrica per 12 ore al giorno, una settimana di notte ed una di giorno e almeno lì nessuno ci picchiava. Mentre andavamo dal campo alla fabbrica mangiavamo qualche filo d'erba che trovavamo; lungo la strada c'era un maniscalco che fuori della bottega buttava i calli e le unghie dei cavalli che noi prendevamo e mangiavamo, ce li scioglievamo in bocca, come oro. Al campo ci davano da mangiare una zuppa: ma erano solo acqua calda e rape. La fame era una ossessione e si mangiava di tutto".
"Mentre percorrevamo questo chilometro per andare e tornare da lavoro, qualcuno scappava sempre e i capò facevano ritorsioni su di noi che restavamo. Ad esempio ci svegliavano in piena notte, ci facevano spogliare e rotolare nudi per 30-40 minuti nella neve, con 10-15 gradi sotto zero e dovevamo anche dimostrare che era piacevole perchè altrimenti ci davano anche delle bastonate. Qualcuno non rientrava in baracca: i più vecchi e i più deboli restavano sulla neve, esanimi".

Solo alcuni dei soprusi subiti nei vari campi: "noi lì dentro non sapevamo niente, noi non sapevamo che c'erano altri campi, non sapevamo neanche che giorno, che mese, che ora era". 
"In quei campi - ricorda Betti - sono morti oltre 13 milioni di persone, non solo 6 milioni di ebrei, anche altri milioni di civili come me che non erano ebrei".

LA MORTE. "Credetemi che la morte che viene attraverso le bastonate è terribile perchè non viene subito: tu prendi una giornata di bastonate e ne risenti, ti fanno perdere la voglia di vivere, di mangiare. Quando qualcuno commetteva qualcosa c'era la morte per fucilazione o per impiccagione che era quella più desiderata perchè si soffriva di meno".
Più volte nel suo racconto Betti parla della morte: "a volte accadeva che fucilavano prigionieri a caso e non sapevo mai se ritenermi fortunato o sfortunato per essere sopravvissuto perchè almeno avrei messo fine alle mie sofferenze". "Tante volte ho invocato la morte, ho pregato Cristo affinché mi portasse via per non soffrire più".

LA CAMERA A GAS. "A Flossenburg i forni crematori non erano sufficienti a smaltire i cadaveri perchè quando il campo era troppo pieno i tedeschi prendevano un blocco di mille persone e le gassavano. Anche io sono capitato una volta lì dentro, ma non sapevo cosa era, nessuno lo sapeva. Noi pensavamo che da quelle nappe scendesse l'acqua per farci la doccia, ma ci domandavamo come mai vestiti. Siamo stati lì dentro circa 14 ore senza cibo. Poi però ci riportarono alla nostra baracca. Non so quale fu il motivo, ma l'acqua non venne e non venne nemmeno il gas. Io l'ho saputo dopo la liberazione che quella era una camera a gas. Se mille persone avessero saputo cosa era davvero, cosa sarebbe successo? Ci saremmo uccisi a vicenda. Invece eravamo tutti calmi e tutti convinti perchè non sapevamo".

Betti racconta che a Flossenburg verso la fine della guerra arrivavano famiglie intere. I padri se erano giudicati buoni per lavorare venivano lasciati vivere, ma donne e bambini non avevano scampo. "Le donne sparivano subito e andavano alla gassazione, ma la cosa peggiore erano i bambini: li vedevo passare di 5, 8,9 anni, mi si spaccava il cuore. Venivano messi tutti in una baracca e quando ce n'erano circa 60-80 li portavano tutti alla camera a gas. Questi bambini nel trasferimento sembravano contenti, non sapevano che andavano a morire. Era uno strazio. Io non sapevo, ma pregavo e basta".

LA FEDE. "Io pregavo sempre Cristo, ero e sono religioso". Ma il messaggio di Betti va oltre: "per stare in un ambiente in quel modo bisognava avere una fede; non importa se era una fede nel Cristo, o nel Budda, o in Stalin, o in un'altra cosa". Lì non c'era un organo superiore a cui rivolgersi per dire che avevi avuto un trattamento ingiusto e i tedeschi facevano quello che volevano".

IL FRATELLO DEL PRESIDENTE PERTINI. Uno degli episodi più toccanti della testimonianza di Mauro Betti è sicuramente quello che riguarda Eugenio Pertini, fratello di Sandro, divenuto poi Presidente della Repubblica Italiana. "Eugenio Pertini aveva una moglie e una figlia, era più grande di me, ma ci affratellammo subito nel campo. Una volta ci stavano trasferendo a piedi. In fondo alla colonna c'era sempre un plotone delle SS pronto all'esecuzione per chi si fermava. Pertini cadde tre volte. Due volte ce la feci a rialzarlo, la terza restò a terra  e non potei fare nulla. Lo vidi uccidere sul ciglio della strada. Pensate che io ho raccontato queste cose a suo fratello Presidente".

LA LIBERAZIONE. Betti, dopo varie vicissitudini, era riuscito a fuggire dal campo durante un trasferimento e si rifugiò in un casolare. Lì lo trovarono gli americani che lo portarono in ospedale. "Molti nei campi sono morti durante la liberazione perchè hanno mangiato, ma il loro fisico non era pronto. Io mi sono slavato grazie a al mio babbo  che aveva fatto due guerre, quella in Libia e la prima guerra mondiale e ci raccontava che durante la ritirata di Caporetto molti soldati morivano quando trovavano le sussistenze perchè dopo molti giorni che non mangiavano si misero a mangiare troppo. Quando mi sono trovato davanti al cibo mi sono ricordato le parole del mio babbo".
Una volta in ospedale Betti viene pesato: con i pantaloni pesa 30 chili. Ha 23 anni. "Ci ho messo alcuni giorni per ricominciare a mangiare e riprendermi; in quell'ospedale non mi hanno fatto cure, anche perchè non avevo carne per potermi fare le iniezioni. Ho solo ricominciato a mangiare lentamente: nelle primi due settimane ho preso 14 chili e quando sono uscito dall'ospedale ne pesavo 70".

Alessandra Siotto
© Riproduzione riservata


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